Ogni paese, città, periferia e zona abitata che si rispetti presenta almeno un personaggio, uno di quelli conosciuti e riconosciuti da tutti, uno di quelli che è sempre un piacere incontrare perché attento, gentile, vivo, uno di quelli che si trovano a pieno agio nei teatri come nelle piazze.
Luciano Emiliani, per i più Lucianino, è una presenza costante di Chieti e dintorni, lo si vede agli eventi culturali in ogni veste possibile, ma a differenza di molti altri frequentatori assidui, lui non è mosso da ragioni istituzionali ma da pura curiosità.
Sulla soglia delle cinquanta primavere, è un artista in «continuo divenire», che ha iniziato involontariamente come pittore sui muri cittadini per diventare pittore su tela, poeta, attore. Stavolta ci incontriamo nel suo “angolino” personale in Via Principessa di Piemonte a Chieti per sentir parlare direttamente da lui del suo percorso.
D: Luciano, quando inizi a realizzare opere d’arte?
R: Questa storia inizia dalla prima ombra che ho fatto in giro per la città…
D: A Chieti?
R: A Chieti e anche fuori, però il punto di partenza è per le stradine di Chieti. Qui feci questo intervento di ombre, che prima si chiamavano “interventi urbani” mentre oggi si definiscono “mezzi di comunicazione non convenzionale”.
D: Quando hai iniziato esattamente?
R: Anni ’90…
D: E come ti è venuta l’idea?
R: E’ venuta così! Spesso mi ritrovo in eventi più grandi di me, quindi poi devo sempre rimettermi a pari. Faccio l’evento, mi casca tutto addosso…ero impreparato, che ne sapevo io? Questa azione che mi porta a vivere e a riconoscere il mio intervento mi ha portato a studiare l’ombra.
D: Quindi è stata un’azione spontanea?
R: Era istintiva, ora posso dire che era semplicemente voglia di partecipazione e di comunicazione, una voglia insita nell’artista che esce fuori dal laboratorio dove si fa il quadruccio suo uscendo, invece, per la città.
D: Hai rielaborato solo più tardi il vero significato delle tue azioni?
R: Sì, dopo! Anche perchè erano gli altri che venivano a farmi delle domande, e io cosa dovevo rispondere? Io sono di base naïf!
D: Il tuo fine ultimo qual è?
R: Non ne ho la più pallida idea. Non lo so! Io non ho un fine, a parte fare uscire un’energia, una specie di voglia dentro che si deve scatenare, che se non la scatenassi potrei diventare cattivo!
D: Con le ombre sei uscito per strada, non sei rimasto dentro casa tua, volevi scatenare una reazione più ampia?
R: Sì, era voglia di partecipare e di essere vivo, dare la sensazione di essere vivo e di servire a qualcosa e a qualcuno, perchè in fondo tutti vogliamo essere utili per qualcosa o per qualcuno. Chi vuole essere utile per sé stesso è un uomo morto.
D: Andavi in giro da solo?
R: Sì! Con un barattolo di vernice nera da tredicimila lire andavo in giro di notte e mi divertivo e avevo la sensazione di esistere.
D: Oppure era senso di trasgressione?
R: Si, un po’ sì.
D: Un po’ come i writers?
R: I writers comunicano fra di loro ma non comunicano con il popolo, usando una grafia che non è neanche italiana, ed io dicevo: «Perchè non parlate in italiano?». Ma questo è venuto dopo, però…

R: In questa foto sono io con un’ombra di Pescara. Come in cielo così in terra non ha a che fare con la Chiesa, è una frase di Ermete Trismegisto, un alchemico, e vuol dire che non esiste un sotto nè un sopra. Sono intervenuto sulla strada, scrivendo per terra, decontestualizzando il manto stradale, scrivendo poesie. Io ho creato il pretesto perchè tu possa fermarti, in un posto concepito per tutt’altro, anche solo per un attimo, leggere quello che c’è scritto e magari guardarti anche intorno: in quell’attimo avviene il ritorno alla vita, il ritorno ad una visione diversa, una visione altra.
D: Ricordi qual è la prima ombra che hai fatto?
R: Sì, era a Filippone. C’erano due ragazzi, uno seduto su una Vespa e uno in piedi, che stava offrendo una birra. Io ho visto questa bella scena e ho detto: “Fermati, fermati! Fammi vedere…fammela ricalcare”. L’ho ricalcata e poi l’ho bella dipinta! La sera dopo mentre tornavo a casa ho visto queste ombre ed ho pensato: «Ci stanno pure loro!», e ci sono cascato pure io perchè erano ombre, non erano persone. Ho capito che funzionava e da allora ho iniziato a divertirmi in questo senso.

D: Questo scheletro dove lo stavi facendo? Eri alla Villa Comunale?
R: Sì, era il 15 Agosto, ci sono i due baristi della Casina dei Tigli che sono venuti pure loro perché tanto non c’era nessuno!
D: Come ti sentivi?
R: E’ iniziato per gioco, andavo in giro per la città cercando di rispettare i muri, evitando quelli già belli e puliti, oppure cercavo dove la luce del lampione mi potesse dare un’ombra possibile, bella da vedere; alcuni poi hanno cercato di imitarmi sbagliando proprio questo!
D: E’ filato sempre tutto liscio?
R: Non proprio, sono venuti a cercarmi… Una domenica mattina la macchina della polizia si è fermata sotto il mio cortile a Filippone, è salito il poliziotto che cercava me…
D: Tu raccontavi agli altri di ciò che facevi?
R: Non mi sono mai nascosto, si è scoperto subito che ero io! Mi venivano a fare anche le interviste. Virgilio Cipollone scrisse un articolo che parlava proprio delle ombre. Anche l’università mi diede una mano anni fa, tramite la 360.

D: Per quanto tempo hai lasciato ombre in giro per le città?
R: Un paio d’anni, e quel paio d’anni mi ha portato tutto. Ognuno era ansioso di raccontarmi la propria avventura con la propria ombra, le reazioni di quando l’aveva scoperta! Grazie a questi racconti sono cresciuto, ho avuto modo di capire di che intervento si trattasse in realtà. All’epoca un altro abruzzese faceva questo genere di cose, il maestro Franco Summa, il top! Faceva interventi urbani in tutta Europa, restando sempre sul filo della condivisione e della sensibilizzazione delle persone.
D: Come sei giunto alla fase successiva, cioè alle “stelle”?
R: Dopo questo lavoro istintivo, puro, naïf, di quella bella ignoranza semplice delle ombre, ho iniziato a documentarmi. E come mi documento? Me ne vado all’Università, mi documento sul mio stesso intervento.

D: Chi hai seguito?
R: Francesco Iengo e Arturo Conte all’università di Chieti che erano come materia e antimateria: Arturo Conte ti distruggeva e Francesco Iengo ti dava l’opportunità di ricostruirti. Poi andavo a sentire anche Fabio Mauri a L’Aquila.
D: Questi confronti ti hanno aiutato?
R: Sì, perchè finita l’università, tornavo in studio e rielaboravo. Che meraviglia…
Non posso dimenticare neanche Enzo Sulini, Karpov e tutti gli amici che hanno sempre creduto in me, mi sono sempre stati vicino e mi hanno sempre dato una mano, magari anche per andare a fare una mostra.
D: Ti mancano quei tempi?
R: Sì! Stavo nel pieno della mia curiosità di sapere dove come, chi sono, chi siete! Chi siamo?
D: Grazie agli studi sei giunto ad un’evoluzione delle ombre?

R: Il lavoro delle stelle è esattamente complementare alle ombre, cioè prettamente intellettuale, studiatissimo; infatti sono vere e proprie poesie che ho riscritto per terra. Nel frattempo mi ero acculturato per capire cosa era accaduto in precedenza.
D: Perchè questo passaggio dal piano verticale al piano orizzontale?
R: Sicuramente per evitare la storia delle multe in caso di pitture sul muro (erano sei mesi di reclusione più la multa), e poi perchè si trattava di un intervento semi permanente con poesie.
D: E dopo?
R: Più tardi, nel ’99 feci l’Elogio d’Abruzzo. Genesi della follia, che mi piace definire la mia tesi di laurea, perchè condensa tutte le ricerche fatte fino a quel momento. Dopo le ombre mi sono messo a studiare determinate cose come l’ombra di Platone con il mito della caverna; ho studiato il mondo classico, fantastico; sono approdato al mondo degli dei dell’Olimpo, che meraviglia, e poi attraverso questa sovrastruttura classica quando ho scoperto Dante mi è stato subito facile entrarci dentro e il testo mi si è come risucchiato, è stata un’apertura. Per un attore cadere dentro le terzine endecasillabe dantesche è il massimo: mi ci sono buttato dentro ed ho scoperto di essere attore e pittore.
D: Quindi esprimi diverse personalità che si liberano nei diversi ambiti dell’arte?
R: Certo, io sono truccatore negli spettacoli teatrali. Lì sono servitore dell’arte, no?
D: Qui a Chieti?
R: Sì, al Marrucino abbiamo fatto dei lavori…è andata bene per un po’ di tempo, però poi la crisi ci ha fregato. Però non faccio solo quello, sto anche da quest’altra parte, e quindi mi sono creato queste opere… Vestitomi di questo personaggio che è la Follia, «quella dolce illusione che libera gli affanni dall’animo», finalmente adesso ho le idee chiare di come propormi, di chi sono e perché. Facendo questo mi sono preso anche la licenza da poeta e adesso non ho nessun problema a dire che sono un artista.

R: “Majella Madre. Parla sua figlia la follia”. Questo è il demo, cioè il primissimo che ho pubblicato, ne fecero mille copie. La follia sarebbe quella di Erasmo da Rotterdam. Successivamente ho scritto un altro libro, “La follia. Dalle ombre alle stelle”.
D: Che vuol dire?
R: Sarebbe la manifestazione della follia qua in Abruzzo, che come un burattino mi fa fare tutte queste cose: mi spinge ad uscire fuori di notte a fare ombre, poi mi spinge a fare le stelle, poi mi spinge di giorno a sentire quali sono le reazioni, mi spinge a tornare in studio a continuare l’opera, perché è un continuo divenire…
D: Che ti ha condotto fin dove?
R: Mi ha portato a Dante, ai canti della Divina Commedia e all’ombra per eccellenza, quella di Francesca.
D: Di cosa si tratta esattamente?
R: Per questa mostra ho preparato le tele e recito anche i canti. Ho prima memorizzato i canti, poi ho vissuto l’avventura, ho preso carta e matita ed ecco qui: mi sono usciti 10 pezzi; volevo farne undici per completare l’endecasillabo, ma me ne manca ancora uno!
D: Quanto tempo ci hai messo a fare tutto?
R: Due anni, in uno studio dove lavoro, con il leggìo…
D: E’ stato difficile?
R: Il colore dell’inferno qual è? La luce che luce è? La “luce muta”! Dipingimi una luce muta! Ahahah! Queste sono le sfide di Dante, è meraviglioso! Il “colore perso”, invece, è il rosso e il nero.

Testo e foto realizzati da Virginia Marrone