Case, grattacieli, parchi divertimento, residence, hotel, depuratori, inceneritori, fabbriche, centri relax, campi da calcetto erano ovunque e solo i monti, perenni divisori naturali, non erano stati presi d’assalto: 2084 puntata #5.
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Domenica sera.
Lo Chez Moi, in tutto il suo fetore, ricordava i lazzaretti cinquecenteschi, solo il male al suo interno aveva assunto un nuovo volto. Non più pandemie come la peste, no, quelli sì che dovevano essere bei tempi. Purtroppo per la maggior parte delle corporations, tolte quelle farmaceutiche, la malattia è sconveniente. Meglio invece un cliente al quale si prospetti una lunga vita di felici acquisti. Una lunga vita di dipendenze non necessarie come alcol, droghe, sesso, shopping compulsivo.
Guardo queste persone intorno a me attraverso la lente di un bicchiere mezzo pieno mezzo vuoto, proprio io che sono il primo degli ipocriti.
Ma la situazione deve cambiare. Si può ancora fare qualcosa. I miei amici non si sono ancora fatti vedere. Stupidi burocrati. Me l’aspettavo, come al solito, tutta quella messa in scena era solo, usando un’espressione dei nostri avi, una freca di chiacchiere.
Intontito, rimastico deluso i miei pensieri, immaginandomi in un futuro prossimo, sulle barricate con il fucile spianato a falcidiare i nemici del pensiero libero.
Spanno la mente, torno al presente e comprendo il bisogno di un altro giro di vodka secca, niente ghiaccio.
Strano, mi dico, che la sbornia colossale della sera prima non mi abbia fatto di nuovo visita. Guardo l’orologio digitale olografico innestato nel polso e allibisco: neanche l’una di notte.
Qualche cretino deve aver aggiunto della sabbia alla clessidra del Mondo, rallentando il tempo, aumentando la mia noia a dismisura.
«Qualcosa la preoccupa, signor C?» mi dice da dietro le spalle una voce familiare. Ed ecco che ai miei fianchi mi ritrovo i due stronzi di ieri
(Stamattina?) e che adesso avrei dovuto chiamare compagni.
«Alla buon’ora. È tutta la sera che vi aspetto…» dico.
«Abbiamo avuto… ehm… complicazioni. Questioni di routine.»
Squadro i due, convinto che non me la stiano raccontando giusta.
«Ebbene, domani sarà il tuo primo giorno di lavoro. Possiamo offrirti qualcosa per festeggiare?»
Li guardo, indicando il bicchiere svuotato.
Gianni&Pinotto fanno un cenno al barista e, dopo qualche minuto, ci serve una vodka secca e due vodkabananalemon. Con un secondo cenno, il barista fa scivolare sul tavolo un fafazzoletto bianco di lino sul bancone di legno laminato.
Gianni se l’infila nel taschino della giacca termoregolata e dice agli altri due: «Prego, seguitemi, faccio strada.»
E così sotto un cielo grigio acciaio, usciamo dallo Chez Moi, per infilarci in un oscuro anfratto metropolitano. Dopo un labirinto di vicoli lungo e all’apparenza interminabile, ci ritroviamo in una stradina secondaria deserta, sporca.
Dei due, Pinotto indica di guardare in basso.
A colpo d’occhio, vedo un pavimento di asfalto cosparso di cartacce e un paio di bottiglie.
E poi vedo una linea. Una linea sottile, scolpita nel suolo. Seguendola con lo sguardo, tracciava un quadrato perfetto, ma solo una visione attenta la poteva notare.
Sento Gianni comporre un numero da palmare.
La botolà si apre, mostrando una scaletta industriale di ferro.
Pinotto accende una lanterna alogena, rischiarando il nero del cunicolo, ma non sembra essere abbastanza potente.
«Ragazzo, benvenuto nella RIL.»
Mi calo nel condotto con un nodo gordiano nella mente, la luce dei due figuri mi sovrasta ondeggiante, creando grotteschi giochi di ombre.