Il quarto appuntamento con Abruzio, romanzo a puntate di Max Sanvitale: siamo in Abruzio, la megalopoli di venti milioni di abitanti nata dalla fusione delle due regioni limitrofe ormai fuse da un’urbanizzazione selvaggia Lazio e Abruzzo. Il cemento ha sommerso tutto. Case, grattacieli, parchi divertimento, residence, hotel, depuratori, inceneritori, fabbriche, centri relax, campi da calcetto erano ovunque e solo i monti, perenni divisori naturali, non erano stati presi d’assalto.
Carta velina
Le porte del flybus entrano in funzione durante l’atterraggio.
Il mezzo mi lascia sul ciglio del marciapiede. Sono le 9,00. Qui, nella zona Sud della costa Est, le case sono rovinate, consunte dal tempo. Lo squallore della periferia macchia i balconi. I fumi delle fabbriche vicine smerdano e intossicano il posto.
Chilometri e chilometri di case squadrate rosse, gialle, grigie.
Fabbriche monolitiche inglobano gli operai come formiche.
Padroni asiatici vessano migranti e residenti con paghe da miseria e condizioni disumane.
La vendetta ha gli occhi a mandorla.
Mi incammino verso un palazzo verde lime, i parapetti gialli, le pareti celesti. Un obbrobrio architettonico da basso impero.
Il campanello è rotto, il ferro annerito del cancello mi fa pensare a qualcuno che ha provato ad appiccare un incendio all’entrata.
Stupido, chiunque egli fosse.
Attraverso il passaggio, inforco una stradina asfaltata, punto la direzione per la scala D.
Le crepe sui muri, le ragnatele a ogni angolo in alto.
Il portone sfondato, il campanello qui funziona.
Pigio il tasto dell’interno 12.
E da bravo idiota, come sempre la risposta non arriva. Mi frugo in tasca, cerco le chiavi.
Apro, prendo l’ascensore.
Lo specchio al suo interno riflette un uomo dal volto segnato. Sul viso vecchi marchi, rughe. I capelli brizzolati, il pizzetto imbiancato. Gli occhi chiari, il naso leggermente incurvato.
Sono io.
Non sono io.
Arrivo al quarto piano, i portelli si aprono. Il pianerottolo è sporco, sento puzza di piscio di gatto.
Apro la porta dell’interno 12.
Finalmente a casa, anche se non è la mia.
La donna delle pulizie deve essere passata da poco, l’atrio è in ordine.
Sbircio nel salotto a sinistra. Lei è seduta sul divano, le cuffie senza fili nelle orecchie, la televisione che manda in onda immagini del programma Cronovision, un canale tematico dedicato alla storia.
Lei è lì, respira piano, discreta. Lo sguardo fisso sul flusso visivo. È come ammaliata. I capelli bianchi, striati di nero, i muscoli un po’ rilassati data l’età, la pelle come carta velina, soffice, liscia. Mia madre siede lì, immobile. Non mi percepisce.
Non può.
Vive nel suo mondo.
Nella sua mente, vive all’infinito i giorni in cui eravamo felici. Prima che papà e Claudio finissero sotto due metri di terra. Ha avuto un tracollo nervoso.
Parla a fantasmi, ologrammi proiettati da un’anima incapace di accettare una perdita così grande, un maelstrom dello spirito.
Mia madre si chiama Angela.
Mia madre vive da morta da ormai vent’anni.
Maledetto Otto Dicembre.
Che si fotta Il Credo!
Sento le lacrime della rabbia salirmi agli occhi. No. Non devo piangere. Penso ai giorni con papà, a quando ero ragazzo.
Quando mi faceva volare, roteare come un folle, quando giocavamo insieme, di quando stavamo tutti insieme nel giardino vicino e mamma ci chiamava dal balcone e ci diceva che era pronto in tavola. Ripenso al sorriso di mio fratello, a come fosse una persona risoluta e mai cupa. Ricordo quando ho fatto colazione con loro, quel bastardo Otto Dicembre. E le ultime parole che ho detto sono state: «Ci vediamo dopo scuola?»
E loro: «Certo! A dopo!»
E poi il ritardo anomalo, il pranzo con mamma in silenzio, tesi e pensierosi.
Il telefono che alle 14.45 comincia a squillare.
Ci sono stati dei morti al corteo.
Sette in tutto e centinaia di feriti e arrestati.
Dai documenti hanno identificato cinque delle vittime.
E capisco che papà e Claudio tarderanno a quel pranzo per sempre…
…È tutto finito, adesso. Respiro, mi controllo. La rabbia, il dolore scompaiono.
Torno nel mondo reale. Guardo quella donna.
Penso a mia madre, a quella che era un tempo, e penso solo a farla mangiare.
D’altronde, oggi è domenica. Mi avvio in cucina, comincio a preparare.
Non vedo l’ora che sia domani, ho proprio voglia di andare al mio solito posto per una birra. E per vedere i miei nuovi amici.