Torna la rubrica (stra)Kvlto di Antonio Secondo, che questa volta ci accompagna attraverso l’affascinante e solitario degrado della provincia abruzzese.
Foto di Antonio Secondo & Paolo Giovanni d’Amato.
Gummo è una pellicola indipendente del 1997 del regista e sceneggiatore americano Harmony Korine. Considerato un emblema del cinema weird, il film non ha una vera e propria trama, è piuttosto una cruda e feroce rappresentazione della provincia americana e dei suoi protagonisti, in cui scene violente e disturbanti si susseguono sullo sfondo di un’ambientazione post apocalittica, accompagnate da una colonna sonora che spazia dal black metal all’hardcore, il tutto sulla scia della disastrata vita di Tummler e Solomon, due adolescenti che trascorrono le loro giornate a caccia di gatti randagi da rivendere ai ristoratori locali. Il critico cinematografico Vincenzo Buccheri denigrò l’opera in una sua recensione definendola “l’esaltazione dell’estetica dello schifo”.
Nel film di Korine, Tummler viene descritto da Solomon come “colui che vede tutto”, un ragazzo eccezionale in grado di decifrare il marcio che ha attorno, di guadarlo immergendovisi dentro senza che il veleno scaturito da quest’ultimo riesca minimamente ad intaccarlo. Tummler è un semidio, completamente slegato dalla società che lo circonda e tuttavia perfettamente capace di mimetizzarvisi. Questa mattina mi sono sentito in qualche modo molto vicino a lui, mentre passeggiavo tra le campagne che circondano la casa dei miei genitori. A differenza della gran parte di quelli che ci vivono ho avuto modo durante la mia vita di approfondire per bene questi luoghi, dimenticandomi quasi subito della strada principale che attraversa la contrada e addentrandomi nei sentieri che la circondano. Da ragazzini trascorrevamo interi pomeriggi perlustrando le campagne della zona in sella alle nostre BMX, tra boschi di querce, pioppi, radure e ruderi fatiscenti.
Se lo chiedete a mio padre vi risponderà quasi sicuramente che Sulmona non è altro che una cittadina ai piedi del versante occidentale del Morrone, un tranquillo borgo di periferia in cui non succede mai niente, abitato perlopiù da nuovi ed ex operai della Magneti Marelli e famoso per i suoi confetti. Tanto più vi dirà di questa contrada, Torrone, un sobborgo / dormitorio popolato da famiglie medioborghesi e vecchi contadini, con la sua piccola chiesa, il suo piccolo ufficio postale e il suo bar chiuso da anni.
Cominciamo col dire che il nome di questa contrada, Torrone, non deriva come si potrebbe pensare dal tradizionale dolce natalizio, bensì dalla presenza in questo luogo di una poderosa torre difensiva, eretta in epoca romana dalla popolazione sulmonese per avvistare e respingere eventuali attacchi provenienti dal territorio marsicano, al di là delle creste del comprensorio Sirente – Velino. Secondo alcuni, i ruderi di quella antica torre esisterebbero ancora, nascosti sotto la fitta vegetazione delle campagne abbandonate.
Appena dietro l’abitazione dei miei genitori inizia un tratturo che corre parallelamente ai binari ferroviari della linea Pescara – Roma. Da bambini eravamo soliti venire ad appostarci qui, aspettando il passaggio del treno, pattugliando le terre alla ricerca di qualcosa che potesse dare una scossa alle nostre noiose giornate. Come quella volta in cui, appena sotto i binari, rinvenimmo una vecchia valigia abbandonata con all’interno il cadavere di un bracco da caccia in decomposizione. Lo tirammo fuori per osservarlo meglio, trattenendo il respiro per via della puzza insopportabile. Era un cane bianco, con macchie marroncine sulla schiena. Aveva la testa dilaniata dai bigattini e la pelle sulla pancia aveva assunto una consistenza simile al cuoio. Mia madre disse che fu sicuramente qualche contadino ad abbandonarlo lì, per non prendersi il disturbo di seppellirlo. Ci intimò in ogni caso di smettere di giocare da quelle parti, così ci spostammo più a valle, verso il fiume.
Per giungervi è necessario attraversare una mulattiera che dalla sommità di una verde collina scivola in una depressione scavata dal corso d’acqua. Non era raro, e non lo è tutt’oggi, imbattersi nei resti di qualche animale selvatico ucciso e macellato sul posto dai tanti bracconieri che battono la zona durante la settimana. Si trovava e si trova di tutto: resti di cervi, cinghiali, selvaggina o di grossi roditori mutilati.
Da bambini, quando ciò accadeva, ci divertivamo a pungolarci a vicenda facendo a gara a chi riusciva a contenere maggiormente il disgusto d’innanzi a quelle macabre visioni. Eravamo una sorta di combriccola di freaks, a metà strada tra Piccole Canaglie e i Tummler e Solomon del film di Korine, con le maglie della Pickwick o di Peruzzi al posto di quelle dei gruppi heavy metal. Una volta superata la collina ci si inoltra all’interno di un boschetto di pioppi molto ampio, nelle cui viscere è ancora nascosto un rudere contadino mangiato dal tempo. All’interno del pollaio qualche metallaro bontempone fissato con Charles Manson si era divertito a decorare le pareti in pietra con scritte a caratteri cubitali tipo PIGS ed HELTER SKELTER, emulando le gesta della Manson Family la notte dell’omicidio di Sharon Tate.
Mi sarebbe piaciuto fotografare anche questo, ma oggi in quel rudere ci vive una famiglia di slavi e di prendermi una coltellata per un articolo di SubCity, abbiate pietà, non ne avevo voglia. La casa in questione è comunque molto conosciuta in zona, soprattutto dalle famiglie che in questa contrada risiedono da più generazioni. Si racconta infatti che sia stata abbandonata durante gli anni venti in seguito ad un infanticidio che costrinse in prigione tutti i membri della famiglia. Che sia vero o meno non credo importi a nessuno, tanto ormai ci vivono gli slavi.
Attraversato il fiume ci si immette su una seconda mulattiera, sovrastata dall’imponente mole di Colle San Cosimo. Sulla sommità del colle i ripetitori di qualche emittente radio o compagnia telefonica osservano la valle sibilando ai cerbiatti attraverso i gruppi elettrogeni in funzione 24 ore su 24. Non c’è da stupirsi infatti se l’ingresso all’area in questione è annunciata da questo cartello:
Per quale motivo la Troma non abbia ancora ambientato qui una delle sue produzioni rimane un mistero, ma non mi sorprenderei se questa o altre zone d’Abruzzo venissero scelte come nuove location per il sequel de Il vendicatore tossico. Ogni primo venerdì di Marzo gli studenti delle medie superiori festeggiano San Cosimo in quanto “patrono dei cavettari”, cioè di quelli che marinano la scuola. Fino a pochi anni fa era usanza in questo determinato giorno salire sulla sommità del colle per una breve scampagnata in compagnia. Nonostante per molti di noi la cosa abbia assunto per diversi anni i connotati di una sorta di Spring Breakers, alcuni professori e un parroco della zona tentarono per un po’ tempo di riqualificare l’evento invitando gli studenti a piantare ogni anno un albero di ulivo in segno di pace e speranza per l’avvenire. La pena infinita scaturita oggi dalla visione di quegli ulivi circondati da ripetitori e antenne radio è ben descritta in questa foto:
Non c’è da stupirsi se la mia generazione non creda più nel sessantotto e se le sedi di Rifondazione siano oggi scomparse dalle strade al pari dei videonoleggi e delle cabine telefoniche. All’interno della collina inoltre fu realizzata, non ricordo in quale periodo, una base militare in stile Area 51 per lo stoccaggio di armi belliche e, si racconta, rifiuti pericolosi, tanto che il sito è al centro di numerose polemiche da parte di comitati ambientalisti da quarant’anni a questa parte. A causa di questo l’area circostante è soggetta a decreto militare e controllata in ogni momento da sistemi radar e sentinelle armate. Durante gli anni ’90 la base fu indicata in una lista di obiettivi sensibili dalle massime autorità militari del Paese a causa della Guerra nel Golfo. Ricordo ancora quella volta in cui, con il mio amico Paolo, sua sorella e un’altra ragazza di nome Sara, ci perdemmo nei dintorni del limite militare a bordo di una Marbella rossa mentre cercavamo un luogo appartato dove fumare erba. Fummo raggiunti nella boscaglia nel giro di dieci minuti da una jeep militare con un camerata armato di mitra in piedi sul cargo posteriore che ci intimò di allontanarci.
Continuando a camminare lungo la mulattiera che circonda il Colle si giunge alle porte delle Gole del Sagittario, in un’altra piccola contrada chiamata Borgo San Giuseppe, oggi disabitata. Le sue case in riva al fiume Sagittario, l’omonima e minuscola chiesetta e le continue tracce dei bracconieri di cui sopra donano a quest’angolo di Mondo i tratti tipici di una favola tedesca dai risvolti orrifici, o di un survival horror della Capcom.
Mentre mi riposo seduto sul muretto della chiesa, godendomi un sorso d’acqua fresca che ancora sgorga da un vecchio lavatoio in pietra, guardo il bosco sul versante opposto del fiume. Il silenzio della montagna è eclissato dal rumore dell’acqua, immagino di essere uno di quei contadini che qui hanno vissuto prima dell’avvento della rivoluzione industriale, e mi immagino steso su di un pagliericcio in una notte di fine estate mentre ascolto il bramito dei cervi nascosti nel bosco e il frastuono del fiume giungere a me dalla finestra aperta nella stanza. Immagino di non dormire, agitato come sono per tutto il lavoro che mi aspetta nei campi l’indomani all’alba. Poi ripenso al cane nella valigia, alle antenne radio e alle mille storie che ancora potrei raccontarvi su questi luoghi, come quella del bambino annegato nelle piscine di raccolta di acqua irrigua che io e Francesco credemmo di vedere la notte in cui scavalcammo il recinto di ferro e ce ne andammo a nuotare in una delle vasche. Tutto qui è intriso del nulla della provincia, con le sue storie che non esistono, perché nessuno ve le racconterà. Eppure in qualche modo questo nulla mi rappresenta ed è per questo che, alle volte, passeggiando per questi luoghi, non posso fare a meno di chiedermi se esista anch’io.
Mi viene in mente quella frase di Rupert Everett in Dellamorte Dellamore quando dice: “Mi sono sempre chiesto come fosse il resto del Mondo, ma il resto del Mondo non esiste. Esistono solo altre storie, e questa è una di quelle”.