Ogni nuovo impulso che arriva nelle lunghe conversazioni è sommariamente valutato, registrato e stoccato in un archivio infinito all’interno delle nostre sinapsi, sotto la dicitura “appena ho dieci minuti mi ci metto”.
Il caffè sta uscendo, l’acqua scorre nel rubinetto, ogni cosa in cucina è fuori posto, compresi il barattolino del curry, quello della curcuma, del coriandolo e del burgul, nonostante oggi non abbia cucinato niente di speziato. Lei mi chiama dall’altra stanza
“Ci pensi tu al caffè?” dice
“Si ci penso io” rispondo
Gratto lo zucchero dalle pareti del barattolo, colpa dell’umidità in casa, mi scotto col caffè, bestemmio, grido, grida pure lei.
“Che è successo?” – grida ancora, entrando con i capelli bagnati e il phon nella mano sinistra. Con la destra gesticola in un modo tutto italiano – “Che diavolo urli? Mi hai fatto prendere un colpo”
Io non rispondo, metto giù il caffè.
Fuori invece non si muove niente, è fermo il cielo, il traffico, le nuvole, i piccoli locali sotto casa. I vecchi e i ragazzi con gli skateboard non sono in piazzetta, nemmeno i negri con le buste di plastica blu.
“Secondo te perché tutti i negri per strada hanno le buste i plastica blu? Voglio dire, sia quelli che vendono gli accendini che quelli dei portachiavi, dei calzini o altre porcherie hanno sempre le stesse buste di plastica blu”
“Forse hanno tutti lo stesso rifornitore in zona”
“Si ma non solo qui. Ci ho fatto caso: anche a Milano, a Roma, a Bologna, Pavia, Torino…. hanno sempre le buste di plastica blu”
“Boh, i negri sono strani”
Silvio guarda il niente davanti a sé, ha una camicia a quadri grigia e una bottiglia di Tennent’s in mano.
Cerca con lo sguardo qualcosa che non c’è. Non c’è il vecchio dei giornali, che porta sempre un quotidiano con se da mettere sotto il culo quando si siede sulle panchine di pietra. Non c’è neanche quello che chiede sempre spicci per andare a Fermo; chissà perché non può semplicemente dire che deve farsi le pere. O magari è vero che va ogni giorno a Fermo, però prima o poi glielo chiedo che cazzo ci va a fare ogni giorno e per quale motivo non decide di andare a vivere lì invece di rimanere a Pescara. Non ha neanche l’accento marchigiano. Si sente un clacson lontano, di un’auto persa tra le strade oltre la palazzina di fronte. Tutto è stranamente immobile. Neanche l’aria si muove.
Più ci penso, più non riesco a ricordare un’estate più calda di questa.
“ ‘nsomma” dice Silvio “com’è che non sei al lavoro?”
“Mi hanno licenziato?”
“Licenziato?” – dice questa parola come se gli scottasse sulla lingua e volesse sputarla via.
“L-i-c-e-n-z-i-a-t-o” gli faccio eco io
“E perché ti hanno l-i-c-e-n-z-i-a-t-o?”
“Crisi economica, rinnovo contratto, appalti, situazione sociopolitica mondiale. Nessuno ha più un soldo da spendere. Stipano monete nei cassetti, nei faldoni dell’archivio, nelle tasche, ma a fine mese non hanno neanche quei due spicci per comprare un pacchetto di Chesterfield rosse o fare un regalo al piccolo Fulgenzio”
“E come l’hai presa?”
“Come ho preso cosa”
“Il fatto che ti abbiano l-i-c-e-n-z-i-a-t-o”
“Non l’ho presa in nessun modo. Non ho una famiglia a carico, ho ancora tutta la vita davanti. Non andrò certo in TV a lamentarmi di non sapere come pagare il mutuo o come sfamare i miei 5 figli che ho messo al mondo pur sapendo di avere un contratto a progetto. So solo che ho la liquidazione nel conto e un mese di affitto già pagato. E questo mi basta”
“Quindi hai i dieci minuti”
La nostra teoria sui dieci minuti declassa quella dei quindici precedentemente formulata da Andy Warhol. Nella vita quelli come noi continuano a dispensare progetti su progetti su progetti. L’idea di morire senza essere arrivati a produrre qualcosa che possa consacrare i nostri nomi nell’Olimpo dei geni ci fa rabbrividire. Per questo ci attacchiamo pateticamente ad ogni cosa. Discorriamo continuamente alla ricerca dell’idea geniale che possa svoltare questa attesa con la migliore equazione possibile. Vale a dire con la più alta percentuale di successo impiegando il minimo livello di fatica. Grazie al cazzo direte voi. Si, grazie al cazzo. La verità è che siamo nati allocchi e sentimentali. Quasi sicuramente ci ritroveremo a spalare merda di qualcun’altro con una camicia di flanella e una giacca di cotone anche nei mesi invernali. A lasciare che i nostri occhi si consumino davanti a monitor che ronzano otto ore al giorno, rincasando a casa nelle sere d’inverno senza neanche più la voglia di fare l’amore.
Ma fino a quel momento continueremo a portare avanti progetti strambi come videobloggers costantemente in concorso, letterati, scrittori, mangiaerba, producers di suoni, organizzatori di feste, consulenti per suicidi, fotografi per matrimoni, pizzettari, spaccalegna, inviati speciali, curatori di rubriche, sportivi, artigiani, manager di artisti. Ogni nuovo impulso che arriva nelle lunghe conversazioni è sommariamente valutato, registrato e stoccato in un archivio infinito all’interno delle nostre sinapsi, sotto la dicitura “appena ho dieci minuti mi ci metto”.
I dieci minuti sono quel lasso di tempo che intercorre tra la perdita del lavoro in cui sei irrimediabilmente incastrato da mesi per continuare a mangiare e il nuovo lavoro che ti incastrerà per i mesi o gli anni successivi. In questo periodo hai a disposizione l’opportunità di realizzare un sogno, cambiare la tua vita nel modo in cui hai sempre sperato, ritrovando la forza per lottare, senza doverti, in genere, preoccupare di pagare le bollette. Beh ora ce li ho. Potrei buttarmi sul progetto “Math Conspiracy”: realizzazione di audiolibri dalle tematiche complottiste e massoniche registrati su basi DNB e suoni ambientali. Potrei imparare a fare il VJ. Potrei decidere di trasferirmi a Parigi. Potrei riprendere i due romanzi lasciati a metà (uno su un tale che dopo una serie di vicissitudini legate al poker riscopre lo scopo della sua vita, l’altro su un tipo solitario e taciturno che vive in una casa di montagna col suo migliore amico, tossicodipendente e matricida). Oppure il più classico dei classici, quello a cui ogni uomo ha pensato almeno una volta nella vita: casa di produzione di film porno.
Silvio butta giù la schiuma della Tennent’s e lancia la bottiglia che esplode in mezzo al piazzale deserto.
Uno stormo di piccoli uccelli neri si alza in volo dal tetto dal palazzo di fronte, in silenzio. Sembra cenere soffiata via. Volano piano, restando sospesi nell’aria, come se volessero schizzare via ma la mancanza di vento non glielo permetta. Lo so già che anche stavolta brucerò i miei dieci minuti.
Non ci posso fare niente se l’ispirazione mi viene solo quando mi alzo per andare al lavoro, mentre mi sistemo il colletto davanti allo specchio. Quando ero con i miei colleghi alla macchinetta del caffè pensavo che avrei potuto masturbarmi davanti alla mia ultima fatica letteraria, partorita dopo qualche mese di solitudine nel più alto nascondiglio che le montagne di ogni dove avessero da offrirmi, invece di sprecare chiacchiere sull’ultima riforma Fornero o sulle scarpe scamosciate della moglie del capo. Poi di un tratto perdi il lavoro e con esso ogni idea. Hai finalmente il tempo di sederti davanti al tuo pc, con un pacchetto di sigarette e quadernetto di appunti, e così, di colpo, svanisce tutto. Ti ritrovi da solo alla scrivania, seduto a chiederti cose come “ma che cazzo sto facendo qui?”, “com’era quella storia che non me la ricordo più”, “forse dovrei chiamare Arianna” e tutta un’altra serie di cazzate che spremono il tuo tempo fino all’ultima goccia di libertà, in una indecisione che sembra non svanire mai. Ma forse la risposta ce l’abbiamo davanti.
Faulkner ha scritto “Mentre Morivo” sul dorso di una carriola durante le pause dal lavoro. Palanhiuk ha scritto “Fight Club” sulle autostrade di tutta l’America, a bordo degli autotreni che guidava prima di divenire uno scrittore affermato. Bukowski ha scritto “Pulp” mentre era impiegato negli uffici delle Poste. Forse ogni scrittore ha un suo lavoro ideale, che gli permetta di impiegare il suo cervello in altro mentre svolge mansioni in modo più rapido e selettivo rispetto ai suoi colleghi.
Dal vicolo dietro la statua sbuca un tipo dinoccolato. Ha indosso una canottiera rossa larga e dei jeans a tre quarti. Porta un cappellino bianco dal quale sbucano capelli lunghi lisci e castani. Muove le braccia in modo esagerato, porta un orologio pataccoso e delle scarpette bianche senza marca. Silvio sputa per terra senza smettere di guardarlo. Il rumore lo attira e si volta verso di noi. Prende a camminarci incontro, non veloce ma con passo deciso, cuocendo sotto il sole di Luglio.
“Ragazzi per favore due spicci che devo andare a Fermo”
Silvio non risponde.
Io do un tiro alla sigaretta, soffio fuori il fumo e la getto via.
“Te li do” dico “se mi dici che cazzo ci vai a fare”
Photo(DeviantArt):
Good Idea
By Arguilla