Redistribuire significa essenzialmente attuare un’equa distribuzione della ricchezza del pianeta, intesa come bene comune che, in quanto tale, deve essere accessibile a tutti in egual misura.
Si tratta quindi di garantire a tutti gli abitanti della terra l’accesso alle risorse del pianeta. Secondo la teoria della decrescita infatti, ad ogni individuo deve essere garantita una condizione di vita dignitosa, in altre parole, dobbiamo ridimensionare gli sprechi: prendere quello di cui abbiamo bisogno piuttosto che produrre cose di cui potremmo fare tranquillamente a meno. Ridistribuire significa inoltre evitare la massiva importazione di materie prime e lo sfruttamento dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi che, come l’esempio Cina insegna, cedendo quote di reddito maggiore ai paesi in via di sviluppo, potrebbero farli diventare dei mercati redditizi per le loro imprese. I paesi ricchi (e democratici) invece attingono a prezzi ridicoli alle risorse naturali dei paesi poveri per immetterle nei loro sistemi di produzione e ricavarne fortune planetarie.
Fermare la crescita illimitata (e insensata).
Guardando le cose sotto questa ottica, si palesa la necessità di fermare la crescita illimitata creando una vera a propria “rivoluzione culturale” che contribuisca, per dirla con Latouche, ad “adattare il sistema di produzione e i rapporti sociali in funzione di un cambiamento di valori”. Ridistribuire le risorse del pianeta in maniera equa ovviamente va di pari passo col ridurre l’impatto delle industrie, dello sfruttamento delle ricchezze naturali e della commercializzazione smodata da parte dell’uomo. Bisogna quindi ripensare l’intero sistema produttivo spostando la domanda dai beni materiali e durevoli, alla commercializzazione di servizi che tali beni offrono. Ecco quindi che si presenta una nuova idea di commercio e di servizi alla persona, da condividere in maniera collettiva (ad esempio l’offerta di servizi artistici e culturali).
Più locali, più solidali
Il concetto di ridistribuire, inoltre, si focalizza anche nell’urgenza di rendere i servizi, i commerci e le imprese più “locali”. Bisogna convertire alcune tipologie di industrie e considerare la possibilità di rilocalizzare la produzione, utilizzando il più possibile le risorse del territorio per soddisfare i bisogni della popolazione locale. Si deve valutare la possibilità di organizzare le imprese affinché siano volte alla produzione di risorse utili e necessarie che possano durare nel tempo, a scapito dell’ormai diffusa produzione di massa e usa e getta focalizzata alla vendita dell’ultimo modello. Come abbiamo già anticipato inizialmente, a questa ristrutturazione dei servizi e delle imprese, è necessario affiancare una parallela rivoluzione culturale: gli individui dovranno rivalutare l’idea di mettere in comune i beni naturali e materiali e renderli parte di un ciclo produttivo volto al servizio della collettività, accantonando l’idea del consumo fine a se stesso e della soddisfazione di quei bisogni creati a tavolino dall’industria per vendere.