Per la sezione personaggi ho fatto due chiacchiere con Minimal Cinema, ovvero Claudio Romano e Betty L’Innocente. Nell’intervista si parlerà di cinema così come non lo conosciamo, di arte e di Ananke il loro primo lungometraggio per il cinema.
Retroscena: Mi è capitato di conoscere Betty per caso, un giorno all’università mentre entrambe aspettavamo il nostro relatore della tesi. Così chiacchierando mi ha raccontato della sua esperienza a New York, delle sue ricerche su Anton Perich e del primo lavoro in collaborazione con Claudio Romano, In the fabulous underground, il documentario realizzato proprio su Perich, artista gravitante attorno alla Factory di Andy Warhol.
Da lì di tanto in tanto quando il caso ce lo consentiva ci incontravamo sempre nel limbo del corridoio del terzo piano, davanti alla porta del nostro relatore. Poi un giorno di ottobre Betty mi contatta e mi chiede se fossi stata disposta a trascorrere due settimane sul set del loro primo film occupandomi degli oggetti di scena. Ed io con l’inconsapevolezza più totale ma con la devozione che si nutre solo verso l’Arte ho accettato, ritrovandomi a far parte dell’avventura.
Ciao Claudio e Betty. Ora che ho smesso di fare legna nel bosco, di spargere calcinacci e barattoli di latta e di trasportare un cestino con i cardi praticamente ovunque posso tornare a qualcosa che mi è più congeniale visto che era un po’ di tempo che avevo intenzione di scrivere un articolo su di voi.
Ciao Federica, prima di risponderti vorremmo pubblicamente ringraziarti per il lavoro che hai fatto sul set. Sei stata tenace, pervicace e profondamente paziente e sensibile. Davvero una grande umanista. Ora fuoco alle poveri!
Grazie a voi per l’opportunità, è stata un’esperienza formativa sotto diversi punti di vista. Per cominciare, intanto cos’è Minimal Cinema?
Minimal Cinema siamo noi, Betty e Claudio. Immagina una sorta di Giano bifronte con due cervelli, due anime, ma un unico intento comune: il cinema e la contemplazione di tutte le sei arti che vi confluiscono. Minimal Cinema è un tentativo di affrontare le cose importanti in maniera essenziale. Ci racconteremo attraverso le tue domande, parlandoti di noi insieme, quasi in terza persona. Le nostre voci si alterneranno, come se l’uno descrivesse l’altro o anche solo se stesso. Leggendo però non saprai bene chi ha detto cosa e ci piace così, perché siamo un unicum con due nature forti e ben distinte. Ti sembra per caso un ossimoro? Bene! La nostra bipolarità vale il quadruplo!
Postilla al retroscena: ho avuto modo di incontrare Claudio solo il giorno prima delle riprese e prima di conoscerlo me lo immaginavo come una specie di Guidobaldo Maria Riccardelli senza Megaditta. Conoscendovi meglio però ho avuto come l’impressione di trovarmi di fronte ad una coppia di mistici medievali. Due persone completamente assorbite dalla loro arte da abbandonare ogni altra “aspirazione terrena”. Vi calza come definizione?
Siamo lusingati da tale definizione. La società che abita (vampirizzando) il mondo ci ha stancato, preferiamo starne alla larga il più possibile. Il nostro ascetismo, il rigore e lo studio, ci proiettano in una dimensione quasi “huizinghiana”, sebbene il nostro autunno del medioevo porti ad un neoplatonismo, necessario per le arti visive italiane. Betty è consapevole dell’importanza dello stato di grazia che raggiunge l’asceta quando incontra l’arte intesa come divinità. Pensa alla Giovanna D’Arco di Dreyer, a quel volto estasiato. Ecco, quella è la percezione che hai avuto vedendo Claudio dirigere il film. Si dice che girare un film sia un atto egoistico e che forse dietro non ci siano nobili motivi; noi pensiamo che sia una necessità, una tensione al divino, quasi come la costruzione di un’architettura gotica. Se raggiungi l’estasi, nulla ti tocca, vivi e muori in quella luce. Tutte le dinamiche umane che ti circondano in quel lasso di tempo sono insignificanti. Per noi non è concepibile un’altra vita ed è per questo che i sacrifici sembrano poca cosa se si espletano nel virtuosismo artistico. Di cinema, ovvero di arte intesa come effluvio vitale, si può anche morire, poiché se non riesci ad esprimerti – attenzione: non a viverci materialmente, quindi a ricavarne un mero profitto economico – la morte è sicuramente auspicabile, è magnanimità dall’alto.
Considerando il tempo e il contesto nei quali ci troviamo a vivere, per voi la pratica artistica che valore assume? È un modo per incidere nella realtà o è semplicemente un bisogno, un modo per sopravvivere e resistere nonostante tutto?
« Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “sia finita” e mi voltai ».(Orfeo ne L’inconsolabile di C. Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947). Ci sembra una buona risposta.
Ricordo ancora il discorso che avete fatto il giorno prima di iniziare le riprese e in particolare il passaggio nel quale avete sottolineato l’assoluta necessità di fare un film anarchico, senza nessuna finalità commerciale e che non dovesse per forza incontrare i gusti del pubblico. Fare un film come Ananke comporta sacrifici enormi. Sentite di aver pagato un prezzo alto per la vostra “intransigenza”?
Ci sentiamo fortunati perché abbiamo potuto esprimerci liberamente. Il film è nato durante un gelido inverno, nel 2011. Avevamo traslocato da poco, la casa da cui venivamo era un buco di culo, buia e sempre piena di polvere. Trovammo un posto carino e luminoso, con un giardino adatto al nostro gatto grasso. Purtroppo l’inquilina precedente aveva avuto un contenzioso con la ditta fornitrice dell’energia elettrica e passammo quaranta giorni senza corrente. Per riscaldarci passavamo i pomeriggi al bar a scroccare la rete wi-fi, ci lavavamo a casa dei genitori di Betty e mangiavamo dagli amici.
Così nacque l’esigenza di scrivere un film che essenzialmente parlasse di un disagio primario. Poi ci fu l’incontro tra Betty e Carlo Lizzani, il quale ci diede il coraggio necessario ad andare avanti nell’idea di fare questo film. Credemmo sin da subito che Arcopinto dovesse essere il nostro produttore, le sue idee sul cinema indipendente (o meglio, autonomo) corrispondevano alle nostre. Volevamo girarlo in pellicola, nulla sembrava facile soprattutto perché avevamo bisogno di soldi. Abbiamo sempre lottato nei tre anni di concepimento di Ananke, ma sono state tappe importanti e doverose. Ananke è un piccolo film partigiano, è la nostra dichiarazione di guerra a tutto ciò che sta cancellando bellezza e umanità nel mondo. Ananke è una preghiera recitata a denti stretti, con umiltà e dignità. Vorremmo che una nuova idea di cinema venisse tracciata e che chi non ha spazio, né coraggio per essere se stesso, fuori dagli schemi commerciali, ci provi. Una piccola prospettiva è stata offerta.
È stato difficile lavorare alla sceneggiatura insieme? Su quali cose le vostre visioni divergevano maggiormente?
Il film è stato tessuto insieme come un manufatto a quattro mani. Betty ricamava e Claudio razionalizzava il disegno. Il principio di economia “ciò che non aggiunge toglie” è stato il mantra comune. Austerity e spending review, in pratica.
Cosa sentite di aver imparato dall’intero processo creativo e dalla realizzazione di Ananke?
Ananke è come un figlio partorito con dolore, come Caino ed Abele per Eva. Abbiamo sublimato la nascita di un ipotetico figlio in un’ellissi temporale piuttosto breve. Il desiderio di maternità e di paternità è sempre gioioso e relativo alla realtà della nascita stessa. Abbiamo dovuto vivere il set, le avversità, gli ostacoli del quotidiano e tentare di mantenere saldo il risultato finale. E’ stata un’esperienza cenobitica, spesso osteggiata dalla natura stessa, quella natura caotica, ostile e dalle regole ferree che tanto poco piacciono agli uomini arroganti di cui parliamo nel film. Ci siamo ritrovati a vivere davvero il film che avevamo scritto. Volevamo narrare l’ineluttabilità del fato e la limitatezza dell’essere umano e abbiamo vissuto entrambe le cose sulla nostra pelle. La finzione non entra tutta nei luoghi e non piega gli eventi naturali: questo ci rimarrà dentro, insieme alle persone incontrate in loco. Persone avulse dal cinema che amavano l’idea che avevano del cinema e ci hanno aiutato. Noi temiamo gli esseri umani ma a volte ce ne innamoriamo perdutamente.
Sul set il reparto di fotografia parlava con un buffo accento finto inglese, tu Claudio molte volte rispondevi con jawohl, qualcuno scherzando voleva introdurre la moda dell’accento filippino ed il film oltre ad avere un titolo in greco antico è interamente recitato in francese. A parte gli scherzi, in Ananke, escludendo un paio di passaggi che non starò qui a spoilerare, si avverte una sorta di rifiuto per l’italiano. Come siete arrivati a questa decisone?
Sentiamo di avere un grosso rispetto nei confronti della nostra lingua e delle nostre tradizioni italiche, ma non nella società in cui viviamo. Narriamo un mondo semplice, arcaico; una vita agreste che è endemica per noi, scevra da ogni surplus o status symbol dettati dal benessere a tutti i costi. Ci piace pensarlo come un film fortemente politico, di dissenso. E lo è. Quando abbiamo iniziato a scrivere Ananke era il 2011 e l’Europa era in pieno declino, vittima di utopie irraggiungibili e menzogne patologiche. Una crisi irreversibile, non certo economica. L’intellettuale non è colui che risolve la criticità ma ne indica i fattori di rischio. Le problematiche di cui parliamo sono quelle legate all’essere umano e alla sua sopravvivenza. La scelta del francese non è solo dettata dalla sua eufonia.
Girare un film in pellicola e con mezzi limitati significa avere completa fiducia nei confronti degli attori. Solidea Ruggiero e Marco Casolino però non sono degli attori in senso stretto. Cosa vi ha spinto a scegliere due artisti per il vostro film? Al di là del rapporto personale che vi lega c’è una qualche ragione che ha a che vedere con il loro modo di essere artisti e di intendere l’arte?
Claudio non crede negli attori. Solidea e Marco sono le persone con cui ci siamo interfacciati da subito, il film è stato cucito loro addosso come un abito. Hanno studiato con noi e sentito di essere dentro la storia, insieme a noi.
Si è creata un’alchimia dettata dalla loro straordinaria sensibilità di artisti e dalla loro umiltà di professionisti. Abbiamo vissuto insieme come una famiglia, pulendo i bagni, rifacendo i letti, cucinando, piangendo e sbroccando e ci siamo amalgamati agli altri attorno al focolare della sera. Non potevamo essere più fortunati! E da allora ci sono, come molti di voi, giorno dopo giorno. Tra l’altro le torte di Gelsomina (segretaria di edizione, ndr), i panini di Mario (runner, ndr) e le tue pizze ci mancano tremendamente!
Eterna lode alle torte di Gelsomina, alla pazienza di Mario e alla cucina di Toti e Pedro! Tornando a noi, il vostro motto è Less is more la frase di Mies Van der Rohe che automaticamente mi fa pensare ad Adolf Loos e al saggio “Ornamento e delitto” .
Entrambi sostenevano l’assoluta necessità in ambito architettonico di eliminare ogni elemento superfluo. Fedeli a questa linea con Ananke avete lavorato per sottrazione, togliendo il più possibile, riducendo al minimo il numero dei personaggi, i dialoghi, le ambientazioni, i colori. Qual è l’essenziale che volevate raggiungere?
Questa domanda è bellissima e denota la grande sensibilità dello storico dell’arte quale sei, lasciatelo dire!
Più che altro sono rimasta profondamente segnata dall’esame di Storia del design…
Le vicende sono osservate dall’alto, come se ci fosse un occhio divino (o un entomologo) che scruta le azioni dei personaggi, uno spettatore supervisore o un passenger kieslowskiano. Altre volte si è trattato di un occhio più discreto e amorevole. Gli uomini compiono il loro destino dentro il tempo, ma sono piccoli dinanzi alla natura che li contiene. L’uomo è piccolo-piccolo, cosa mai dovrebbe aggiungere al creato se non abbandonarsi ad esso e ammirarlo con profonda reverenza?
Anche l’elemento narrativo viene lasciato in secondo piano. Tolta la necessità di raccontare e di rispondere ad una certa “fame di storie” dello spettatore, non si corre il rischio di lasciare intendere che tutto quello è presente in scena è stato concepito come altamente significante proprio per sopperire a questa mancanza di informazioni?
Lo spettatore deve guardare ciò che vuole vedere ed intendere la storia come un sentimento che gli si dipana dentro. Ci sono dei semi narrativi, piccole molliche di pane lasciate per la via da Pollicino. Tutte le informazioni necessarie sono disseminate e nascoste con cura. Si può scegliere di raccoglierle o di ignorarle. Cosa c’è di più inutile e sbagliato che imboccare e indottrinare lo spettatore, incoraggiandolo alla pigrizia? I film di facile comprensione, dove tutto torna e nulla rimane vanno bene per la televisione, non per il cinema inteso come non-luogo catartico. Il film ha almeno sei livelli di lettura e ognuno è libero di addentrarsi in essi quanto e come vuole. Ogni tentativo di penetrare il nostro piccolo film non potrà che lusingarci.
Ci sono alcune scene del film che ricalcano più o meno fedelmente alcune opere d’arte famose di un periodo storico-artistico ben preciso. La scelta è stata dettata da un fattore estetico-formale o anche da motivi che hanno a che fare con i contenuti e con i messaggi che le opere stesse veicolano?
Abbiamo entrambi un immaginario fortemente visionario ed intriso di opere d’arte del passato. Betty ha una formazione storico artistica e ammicca al Neoclassico e al periodo Preraffaellita; Claudio è figlio di un paesaggista. L’arte crea dentro di noi quel logorio necessario ad accettare la fallacità umana.
Durante alcune riprese nel bosco il fonico conosciuto anche come “amico caro” mi ha fatto riflettere sul particolare uso del suono in Ananke sottolineandone la rarità nel contesto italiano. Potete spiegare questo aspetto?
Il suono è un aspetto fondamentale del cinema. Giunge alle nostre viscere molto prima di ciò che vediamo. Il sentire alimenta il vedere, lo contraddice, mettendolo in discussione. C’è qualcosa di orfico nell’invenzione della settima arte, poiché ognuna delle altre sei può avere una vita propria ma tutte insieme si dissolvono nella settima e le sono devote.
Il film è stato girato in montagna, in un borgo abbandonato nel comune di Valle Castellana in provincia di Teramo. Una delle cose più piacevoli del film è stata in effetti la possibilità di godere della natura e di paesaggi meravigliosi; tuttavia io ho avvertito una sorta di atmosfera sospesa, quasi irreale considerando anche il fatto che a Novembre in due settimane praticamente non abbiamo quasi mai visto la pioggia. Voi che sensazione avete avuto?
Betty è quella extrasensoriale, crede ai fantasmi, agli spiriti e alle presenze. Quando siamo arrivati per la prima volta a Stivigliano, il paese fantasma, ci si è accapponata la pelle. Tutto sembrava essere stato lasciato lì dopo un tragico evento. Eravamo come in una bolla, ogni tanto un gemito di vento o un’ombra scostava le tendine dalle finestre: qualcuno ci osservava. Ci sembrò spaventoso. L’ostello di Leofara che ci ha ospitato per i primi quattro giorni pullulava di presenze ostili e respingenti. Non funzionò nulla sin da subito, nonostante i collaudi. Ricordi? Gli orologi segnavano la stessa ora, i cellulari non prendevano, gli animi si surriscaldavano. La prima notte per Betty fu tremenda. Quando Betty e Mario( il mitico runner ndr) hanno sgombrato l’ostello per andarcene al B&B, hanno sentito fischi e rumori incessanti che gradivano la nostra scelta di traslocare. Invece a Stivigliano chi ci spiava ci voleva aiutare, ci aiutava in ogni gesto e a volte si beffava di noi. Ricordi gli oggetti di scena che si spostavano dalla madia in continuazione? E il ferro di cavallo che tornava sullo stipite della porta? Poi le foto di scena sullo specchio in camera da letto che non sono entrate nell’inquadratura. Claudio fa l’evasivo, lui non crede fino in fondo alle suggestioni di Betty, ma Solidea per fortuna la appoggia. Betty crede di aver visto donne, uomini e bambini, vissuti molto tempo fa in quel luogo, che ci hanno protetto e accolto nella loro casa e dove hanno, un giorno, lasciato le loro cose per noi, per Ananke. O forse è solo lei che cercava loro, trovando Ananke.
Leofara era veramente l’Overlook Hotel. Per gli oggetti di scena nella madia invece avrei qualche dubbio, “il fantasma” secondo me era sardo e amava mettere le canzoni di David Bowie.
Nell’estate del 2014 ad Alba adriatica avete organizzato Conversazioni visive, una rassegna cinematografica alla quale hanno preso parte anche Gianluca Arcopinto ed Enrico Ghezzi. Il primo sarebbe poi diventato il vostro produttore e Ghezzi credo che ormai possiate considerarlo un amico. Che giudizio vi aspettate da entrambi per quanto riguarda Ananke?
Speriamo di aver fatto un buon film e di non deludere chi ha creduto in noi, nonostante i nostri limiti. Siamo stati onesti e ci abbiamo messo l’anima.
A chi dedicherete il film?
E tu come fai a sapere che lo dedicheremo a qualcuno? Comunque a Carlo e Gilberto, basta così! Loro lo sanno, lo stanno aspettando.
Ora che siamo giunti alla fine dell’intervista mi sembra doveroso buttarla in caciara. Cosa direbbe il senatore Antonio Razzi del vostro film?
“Il film è bello, ma non lo vedrei!” Quanto abbiamo riso, di fronte al camino, quando abbiamo sparato questa “razzata”!