I poveri Cristi

 Un tuffo nel mondo del gotico abruzzese con Antonio Secondo, questa è la volta della processione del Venerdì Santo di Sulmona


Francesco urta col piede una bottiglia di Peroni che rimbalza su qualche gradino prima di esplodere. Tutti si voltano a guardarci. Lui continua a raccontare, impassibile.

“..e insomma mia madre aveva ‘sta nonna, la mia bisnonna no?, fissata con la religione. Una di quelle che votano catenine d’oro a Sant’Antonio”
“Cioè?”gli chiede Franco, che è proprio il più scemo del gruppo.


Francesco si volta e fa una smorfia.

“I voti, gli Ex Voto: uno chiede qualcosa a un santo e se il desiderio si realizza gli regala una collana, o qualcos’altro”
“Come si fa a regalare una collana a un santo?”
“Ma alla statua, imbecille”


Franco è un po’ tardo; ha un cugino che l’ha fatto sistemare come guardia penitenziaria in una delle carceri più grandi del Paese, ribattezzato “il Carcere dei Suicidi” per via dell’alto numero di morti ammazzati collezionato negli anni. Noi ci scherziamo su e lo prendiamo in giro dicendogli che i detenuti hanno iniziato ad ammazzarsi da quando hanno assunto lui. Franco un po’ se ne picca.

“E allora la direttrice?” dice sempre.

 Già, la direttrice.
Anche lei si è ammazzata. Il marito l’avevano fatto fuori dei mafiosi qualche anno prima, lei era sola, a fare carriera in una società fallocratica completamente asettica verso i problemi di una giovane donna. Forse per bypassare quell’aura da donna inconsolabile aveva reso un inferno la vita di quei criminali, sfogando su di loro anni di odio verso la criminalità organizzata. Si è sparata con una pistola d’ordinanza nel suo appartamento adiacente la Casa Circondariale, davanti agli occhi un po’ curiosi di un cane pastore, fedele compagno e confidente. Franco l’aveva salutata per ultimo quel giorno, scortandola verso casa per aiutarla a portare dei faldoni.

“Quella s’è ammazzata perché l’hai accompagnata a casa tu” lo schernisce Francesco.

Franco di solito abbassa gli occhi guardandosi le scarpe; forse ci crede veramente.

“Ti dispiace se continuo?” gli chiede Francesco. Lui lo guarda e fa segno di sì.

“La mia bisnonna lasciava la tavola imbandita la notte di ogni santo, perché diceva a mia madre che in quella notte a tutti i morti era concesso di tornare a casa per vedere se andava tutto bene, ed era giusto lasciare un piatto della cena anche per loro, per fargli capire che non erano stati dimenticati. Mia madre dormiva con il letto verso il muro che comunicava con la cucina. Ogni 2 novembre non riusciva a prendere sonno pensando al banchetto di morti viventi che si stava svolgendo nella stanza affianco. Una volta si è anche pisciata sotto per non andare in bagno. Così ogni 2 novembre ora lascia anche lei un paio di piatti e una bottiglia di vino sul tavolo, con un cestino di pane e un po’ di minestra nella pentola” Mia madre fa lo stesso, perché è nata nel medesimo paesino di quella di Francesco. Una notte di tanti anni fa sono tornato a casa ubriaco dopo una serata con gli amici, e vedendo la tavola apparecchiata ho pensato che mi avesse lasciato la cena. Figurati se pensavo che era il 2 di novembre e mio nonno doveva venire a mangiare le sue fettuccine. Ho fatto fuori quel poco che era rimasto della cena e sono andato a dormire. Mia madre è venuta a svegliarmi la mattina seguente, incazzata come una bestia e dicendo che nonno se la sarebbe presa con me. Una volta sveglio ero seduto sul cesso e pensavo a mio nonno che da piccolo mi lasciava mangiare sempre la sua pietanza, perché diceva che dovevo crescere. E me l’immaginavo ora farsi una risata in cielo e dirmi “non dar retta a quella pazza di tua madre, sono morto, delle fettuccine non me ne frega un cazzo. Però passa ogni tanto a pulirmi la lapide, che la vedova di quello affianco me la schizza di fango ogni volta che annaffia”.

Questa storia però non la racconto.

La piazza è gremita, ma noi siamo soli sulle gradinate, per via della pozza di vetri creata da Francesco sui gradini ai nostri piedi, dove ora nessuno può sedersi. È Venerdì santo e non capisco perché sono tutti tirati a lucido. Non l’ho detto a Francesco, ma oggi sono voluto venire a fare un giro nella città dove sono cresciuto perché adoro vedere la processione. L’ho spronato a venire con la scusa di una bevuta altrove, che non fosse il solito bar di paese, e visto che Franco mi ha dato man forte nel convincerlo ci siamo tirati dietro anche lui.
La statua della processione è in una chiesetta in centro. Quando ero piccolo aspettavo sempre mia madre all’inizio del corso principale, da dove non si poteva entrare con l’auto. Studiavo pianoforte in edificio ottocentesco sulla piazza principale e la strada mi divideva dal punto di incontro con lei era segnata da una pizzeria in cui bivaccava sempre un gruppo di bulli. Un giorno presero di mira la mia cartellina rossa per iniziare a darmi fastidio, così per me passare davanti quella pizzeria era divenuta una sorta di dogana. Quando mi individuavano iniziava il loro gioco: prendevano a rincorrermi e io scappavo. La chiesetta in centro era a metà percorso, rifugio perfetto, soprattutto per via di una zingara che faceva l’elemosina ogni giorno sui gradini d’ingresso, che aveva capito la storia e non li faceva passare, scacciandoli via. Una volta dentro, camminavo svelto verso l’altare e mi sedevo a destra, sulle panche davanti la teca del Cristo morto. Le suore che passavano bisbigliavano sempre commenti di approvazione verso questo bambino molto devoto che da solo veniva a pregare quest’effige sofferente, simbolo di tutti i peccati degli uomini. In realtà io ero incazzato con Cristo e mi sedevo in quel punto proprio per rimproverarlo di tutti i peccati degli uomini.

“Ma perché non li fai smettere?” gli chiedevo.

Quando questo accadeva facevo sempre ritardo, mia madre mi sgridava perché pensava sostassi nella sala giochi vicino la chiesa e io mi incazzavo con Cristo ancora di più.

“Oh! Mi ascolti?” mi chiede Francesco, spingendomi col gomito “mi fai una sigaretta?”

Sento la musica in lontananza. Gli lancio il pacco di tabacco con tutto l’occorrente.

“Tieni, fattela” dico alzandomi

Cammino sulla soglia dei gradini, cercando di sporgermi oltre le teste per guardare il resto della piazza stracolma. C’è un lampione vicino al muro dalla parte opposta, dal quale ho seguito ogni pubblica manifestazione cittadina da quando sono nato. Mi ci arrampico tenendomi con la schiena sul muro. Mentre sono là, seduto sul niente, la musica si fa sempre più forte. Arriva il corteo. A portare i lampioni sono i tossici della città, da quelli più storici fino alle nuove leve, vestiti di rosso scarlatto e cinta di cuoio. La chiesa paga 20 euro ai portatori e loro sono sempre i primi ad offrirsi. Camminano in silenzio, strusciando i piedi e dondolando, come vuole la tradizione. La città è ferma, la folla ha smesso di parlare. Le luci barcollano sopra le teste, Cristo fa il suo ingresso nella piazza preceduto da un esercito di disadattati. Molti di loro li conosco, ci sono cresciuto assieme.
Mariolino, figlio della mia professoressa di italiano, che ha l’epatite.
Riccardo, che dorme in una casa sfitta.
Sergio, che ha condanne per furto, danneggiamenti e spaccio.

Al passaggio del rito tutti si segnano la fronte, non so se per il Cristo o per i poveri cristi. Un bambino sulle spalle del padre appena davanti a me mugola che vuole tornare a casa. I poveri cristi camminano portando lampioni di ottone alti due metri, scandendo le suole all’unisono. Per un giorno l’anno li compatiscono, perché quel Cristo ferito da chiodi e lance, quel Cristo scomposto dalla crudeltà umana, quella figura nobile a cui tutti fanno riferimento li mostra per quelli che sono. Una Madonna vestita di nero chiude il corteo piangendo, con in mano un cuore trafitto da sette pugnali. Piange quel figlio pazzo che gli hanno ammazzato. Cristo tumefatto come le braccia di Mario, di Riccardo, di Sergio, che non aspettano altro di incassare la 20 e tirar su la manica. Maria Maddalena che piange i suoi figli pazzi, gli stupidi cristi che le stanno ammazzando.
Passato il corteo tutti tornano a cianciare, starnazzare, belare. La loro parte l’hanno fatta e ora sono contenti di tornare a guardare Quarto Grado, o la D’Urso che parla del prossimo scoop. Sempre più atroce, sempre più demoniaco.
Nel terrore delle loro vite non c’è apprendimento, ma solo routine e qualche insipida cena senza discorsi.
Vedo Francesco farsi largo tra la gente.

“ ‘ndiamo” dice “è ora di cena e devo vedere Gianni e Tonino per l’erba”

Franco, in disparte, cerca ancora il corteo, sparito dietro i palazzi del centro.
Sulla strada di casa siamo stretti in un furgone a due posti. Franco vuole fermarsi per pisciare. Accosto lungo la statale che sale verso il paese di montagna. Franco, dal ciglio di un burrone che ridà sulle gole, piscia nel vuoto muovendo il bacino. Francesco lo guarda da dentro il furgone.

“Che razza di coglione”

Io sto tamburellando sul volante. Mi volto a guardarlo.

“Quando è passata la processione mi ha chiesto quanto costa un favore grosso a Sant’Antonio. Gli ho detto che non capivo a cosa alludesse e mi ha risposto “c’è un camorrista sul lavoro che mi ha minacciato di morte perché non l’ho fatto uscire durante il mio turno. Con un bracciale d’oro bianco del battesimo lo posso far ammazzare?”

Io scoppio a ridere.

“L’ha presa sul serio la storia degli Ex Voto”
“La prendono sul serio tutti” dice lui “
“Bah, oggi come oggi credo quasi più nessuno”
“Ma scherzi? Non hai visto la Madonna in processione ad Agosto di quest’anno? La portano pel paese che sembra una zingara usuraia. Mia nonna gli avrà dato 2 o 3000 euro in gioielli solo da quando sono nato io”
“Eppure mica se la passa bene tua nonna”
“Vaglielo a spiegare”
“Se fossi la Madonna mi offenderei un pò”
“Cioè?”
“Cazzo è volgarissimo: ti do l’oro del battesimo, guariscimi dal male e fammi entrare in paradiso. E’ una mazzetta bell’e buona, roba da escort di prim’ordine. Hanno imputtanito pure la Madonna e chiedono di salvarsi l’anima?”

Francesco mi guarda col suo fare imbronciato.

“Mi sa tanto” dice “che sei un po’ coglione pure tu”

Franco apre la portiera lasciando entrare una lama di gelo nel tepore dell’abitacolo.

“Merda si gela di fuori”

Io avvio il furgone e riprendiamo il viaggio verso casa.
Io non so se credo in Dio, ma in Cristo forse si. Mi piace pensare che mi ascoltasse su quel letto di spini quando, da bambino, pregavo affinché i bulli della pizzeria non mi scocciassero più. Ma forse non mi ha mai graziato perché il mio Ex Voto di qualche buona azione non sfiorava neanche lontanamente il suo cachet. Forse era là a dirmi di provare con San Quintino Martire, che accettava casi come il mio, ma ero io a non ascoltare. Ora però abbiamo fatto pace, e quando il 2 novembre mio nonno viene a farmi visita gli chiedo sempre come se la passi quel povero Cristo.

“Lo vedo poco” dice “sai, è sempre indaffarato. Ma mi ha detto che prima o poi mi accompagna, che ti deve dire due parole. Ottime ‘ste fettucce: uguali uguali a quelle di tua nonna”

Poi butta giù un sorso di vino e aggiunge

“E magna un po’ pure tu, che devi farti grande”

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Incappucciati 1

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Categorie: Archivio

Di Antonio Secondo

Ha fino ad oggi pubblicato saggi e racconti brevi su antologie letterarie e riviste di settore italiane. Nel 2011 si classifica al terzo posto degli Oxè Awards, concorso letterario per il miglior racconto erotico italiano. Gli piace raccontare il suo Abruzzo, quello non convenzionale, non da cartolina, quello fatato delle vecchie tradizioni contadine e quello più underground delle moderne generazioni. E' fondatore e amministratore della pagina Facebook Gotico Abruzzese.