Il quarto appuntamento con Abruzio, romanzo a puntate di Max Sanvitale: siamo in Abruzio, la megalopoli di venti milioni di abitanti nata dalla fusione delle due regioni limitrofe ormai fuse da un’urbanizzazione selvaggia Lazio e Abruzzo. Il cemento ha sommerso tutto. Case, grattacieli, parchi divertimento, residence, hotel, depuratori, inceneritori, fabbriche, centri relax, campi da calcetto erano ovunque e solo i monti, perenni divisori naturali, non erano stati presi d’assalto.
Porta Vecchia
Riprendo i sensi.
Sono disteso, credo.
Tastando, potrei essere su di un divano.
Quando le pupille si schiudono, la realtà intorno a me è velata di grigio. Tutto è fuori fuoco, chiudendo gli occhi, il mondo gira senza di me.
Lentamente, tutto prende la sua forma ordinaria e noiosa.
Mi guardo intorno e noto di essere in una stanza. L’unica porta sembra essere sprangata, tuttavia c’è una finestra. Il miscuglio dei lampioni e della debole luce naturale mi dicono che sta albeggiando. Controllo l’orologio. È passata qualche ora dai miei ultimi ricordi. Sono le 7,00.
Butto un’occhiata oltre il freddo vetro dell’infisso, per capire dove mi trovi.
Le case del quartiere non mi dicono nulla, mi cerco nelle tasche, trovo sigarette e accendino, infiammo una bionda, aspiro.
Non so dove sono.
La zona non mi dice niente. Tento di connettermi alla rete tramite telefono, ma la camera sembra essere isolata.
Urlo.
Urlo ancora e, poco dopo, sento un lontano scalpiccio.
I miei secondini girano la chiave nella toppa.
La porta si apre.
Appaiono i due tizi di prima, quelli che mi hanno prelevato da sbronzo.
Stronzi, mi dico, adesso mi dite che cazzo succede qui.
«Ah, bene. Si è ripreso, signor C» dice quello alto.
«Dove mi trovo?» chiedo.
«È al sicuro. Questo è un rifugio della RIL. Va meglio?» dice quello più tarchiato.
«Più o meno…» rispondo io.
«Bene. Stia comodo.»
I due prendono posto a sedere sulle poltroncine antistanti. La testa mi pulsa, mi pesa. Cerco di essere lucido, di non chiudere mai gli occhi. Resto concentrato.
Il tipo alto sospira e dice: «Ricorda qualcosa di ieri sera?»
«Sì, mi avete prelevato da quella bettola. Parlavate di un lavoro. Di una certa RIL. Poi più niente.»
I due si scambiano un’occhiata d’intesa veloce.
Poi quello tarchiato interviene: «È abbastanza, per noi. Quello che vogliamo proporle riguarda il gruppo insurrezionalista Resistenza per L’Italia Libera. Il nome le dice niente?»
Frugo tra le macerie dei ricordi. Ne ho letto sugli ologiornali. Gruppo ribelle, azioni dimostrative, attacchi. Unica conclusione possibile: terroristi.
«Sui giornali sembrate una banda armata. Terroristi, in pratica.»
Il tizio alto si acciglia, chiude gli occhi per un secondo. Poi risponde: «Ma lei sa bene di chi sono i giornali che circolano in questo Paese. Sa bene chi è che controlla cosa si scrive, chi lo scrive e perché. Mi sbaglio, forse?»
Due parole. Una sola risposta: «Il Credo.»
Quello alto dice: «Sono passati vent’anni dal colpo di stato. Dalle violenze dell’Otto Dicembre. Molti hanno dimenticato. Alcuni ricordano ancora con sofferenza.»
Lo sguardo del tipo alto mi pugnala negli occhi e così capisco che sanno. Sanno di me. Sanno di mio padre e di mio fratello. Li lascio continuare.
«Suo fratello Claudio C. e suo padre Massimo erano tra le vittime di quel dannato giorno, vero?»
Annuisco. Resto in silenzio.
«Le stiamo offrendo, caro signor C, l’opportunità di entrare nella Brigata Porta Vecchia. All’inizio sarà un semplice infiltrato. Farà il doppio gioco. E continuerà a fare il suo lavoro nell’agenzia interinale come ha sempre fatto. Nel frattempo…»
Interviene il tipo tarchiato, il volto paonazzo, quasi soffocasse nel pronunciare ogni singola sillaba: «… E nel frattempo verrà istruito sui suoi compiti. Allora, signor C, è dei nostri?»
Penso, rifletto, rimugino.
I due mi osservano fiduciosi, come se sapessero già la risposta.
Ma la verità è che ci devo pensare. I rischi sono altissimi, la lenta morte dovuta ai miei eccessi potrebbe essere anticipata da una pallottola nel cranio.
«Vi ho ascoltato. Adesso vi propongo la mia offerta: voi mi lasciate andare. Mi fate tornare nel mio monolocale pulcioso. Mi prendo ventiquattr’ore e ci penso su. Ci vediamo domani notte, al solito posto.»
I due si guardano, interrogativi.
«Intendo: la fogna di locale in cui mi avete raccattato.»
I due annuiscono.
Strette di mani, parole usate al minimo.
Passo dalla porta, ora aperta. Esco di scena.
Dopo un piccolo dedalo di corridoi e porte, mi ritrovo all’esterno.
È giorno. È presto.
Arranco verso la fermata del flybus che mi porterà vicino casa.
Ma prima di tornare, penso che passerò a trovare una persona.
D’altronde, oggi è domenica.